Nominata a dicembre 2013, in carica da gennaio 2014, il CEO di GM Mary Barra – prima donna a capo del gruppo automobilistico della storia – ad aprile si trova ad affrontare una rogna le cui dimensioni sembrano aumentare di giorno in giorno e sconfinare nella politica.
Mary Barra presta giuramento nella camera dei deputati del congresso US (Foto: Reuters)
Si tratta di un difetto di produzione del sistema d'accensione di alcuni modelli di auto piccole (almeno per gli standard americani), quali la Saturn Ion (la prima vettura sulla quale il difetto è stato riscontrato nel 2001) e la Chevrolet Cobalt: durante la marcia la chiave dell'accensione non viene tenuta in posizione dalla parte difettosa, provocando lo spegnimento del motore e conseguente disattivazione di meccanismi di sicurezza quali servofreno, servosterzo e airbag.
“Abbiamo un nuovo CEO” ha dichiarato ieri in una conferenza stampa il capo di General Motors Dan akerman “ed è una donna, una car-girl, e credo che questa sia un'ottima cosa”. Si tratta della 51enne Mary T. Barra (compirà 52 anni il 24 dicembre 2013), figlia di un operaio della Pontiac e impiegata del Gruppo GM dall'età di 19 anni.
Mary T. Barra, da capo Sviluppo Prodotto ad Amministratore Delegato di GM, prima donna CEO del colosso auto USA
Mary Barra, nominata CEO (Chief Executive Officer) è la prima donna a capo del colosso americano in 105 anni di storia. Al momento della nomina la donna manager si trova a capo della Direzione Sviluppo Prodotto di General Motors, dopo aver diretto il dipartimento di Risorse Umane con la carica di Vice Presidente, Global Human Resources.
Il marchio alla base del Gruppo General Motors,
Chevrolet, abbandonerà l'Europa alla fine del 2015, mentre GM si concentrerà sulla fase di rilancio di Opel (Vauxhall in Gran Bretagna ed Irlanda), marca che basta da sé a dare sufficienti grattacapi finanziari al gruppo automobilistico di Detroit guidato da Daniel Akerson. Le operazioni europee di GM hanno infatti portato una perdita di 1,8 miliardi di dollari nel 2012 (circa 1,3 miliardi di euro), mentre nel 2011 il rosso valeva $700 milioni (€510 milioni).
La Chevrolet Trax, novità 2013 destinata ad avere vita corta in Europa
La ritirata prevede l'uscita di Chevrolet anche da gran parte dei paesi dell'Europa orientale, dove la posizione acquisita dal marchio Daewoo (acquisito da General Motors nel 2011 e poi confluito in Chevrolet) faceva ben sperare per un futuro luminoso, nel segmento budget (parte bassa del mercato). Ora, invece, sarà il marchio Škoda (Gruppo Volkswagen) a farla sempre più da padrone nell'Est Europa, anche se Chevrolet rimarrà presente in Russia, Ucraina, Bielorussia e Moldavia.
Nessuno è stato a capo di Toyota quanto Eiji Toyoda - cugino del fondatore di Toyota Motor Corporation Kiichiro Toyoda –, morto all'età di 100 anni compiuti da cinque giorni, il 17 settembre 2013, a causa di un arresto cardiaco. Toyoda era ricoverato in una clinica a Toyota City, cuore dell'azienda, creata nel 1938 per assistere i propri lavoratori.
Il presidente di Toyota Motor Corp. Eiji Toyoda con il presidente di General Motors Roger B. Smith
Aveva ricoperto le cariche di presidente dal 1967 al 1981 e presidente del consiglio di amministrazione dal 1981 al 1994 (in seguito alla riunificazione di vendite e produzione di Toyota), ed ha trasformato un piccolo produttore nel colosso giapponese dell'industria automobilistica che oggi tutti conosciamo (nel 2012 Toyota è stato il primo produttore di automobili al mondo).
Anche a maggio è continuata la discesa del mercato auto dell'Unione Europea: questa volta il calo
è pari a oltre 65.000 immatricolazioni (il 5,9%) e il totale del
mese si ferma a 1.042.742 nuove auto registrate (un anno fa, nello
stesso mese, furono 1.107.942 le vetture nuove targate nella UE).
Il mese di maggio
2013 segna il minimo storico degli ultimi 20 anni: solo nel 1993 è
stato più basso, quando le immatricolazioni si fermarono sotto il
milione di auto.
Fra i mercati
principali, ancora una volta è il solo il Regno Unito ad essere in
crescita, peraltro in doppia cifra (+11,0%), mentre Italia (-8,0%),
Spagna (-2,6%), Francia (-10,4%) e Germania (-9,9%) sono in calo, più
o meno netto.
Nei primi 5 mesi
dell'anno il mercato dell'UE è sceso del 6,8%, i volumi totali
passano dalle 5.443.226 automobili registrate nel 2012, alle
5.070.840 dei primi cinque mesi del 2013. Il -5,9% di maggio
rappresenterebbe quindi un rallentamento del declino.
Da gennaio a
maggio sono Italia e Francia ad aver segnato cali delle
immatricolazioni a due cifre – rispettivamente del 11,3 e 11,9
percento – mentre Spagna e Germania “limitano i danni” ad un
5,8% e un 8,8%. Nel periodo, la Gran Bretagna e Irlanda del Nord
segna un'espansione del 9,3%.
Sembra essere
ufficiale, Toyota Motor nel 2012 ha venduto un volume di veicoli
record, raggiungendo quota 9,75 milioni, sorpassando General Motors e
Volkswagen Group e assicurandosi la posizione di produttore auto numero uno al
mondo.
Un salone Toyota in Giappone, dove le vendite sono salite del 35 percento (Shizuo Kambayashi/Associated Press)
Lo scorso anno il
titolo di maggior produttore di auto al mondo se lo sono giocato la
General Motors e Volkswagen, non senza strascichi di polemiche, mentre Toyota rimase a guardare.
Contrariamente
alla tradizione, a capo dei tre produttori d'auto americani
denominati “the big three” - Ford, General Motors e Chrysler –
oggi troviamo tre boss – Alan Mulally, Dan Akerson, Sergio
Marchionne - che non sono né “uomini dell'auto”, né manager con
una lunga storia nelle rispettive aziende.
Una
breve ma efficacie analisi degli loro stili è apparsa sul
settimanale britannico The Economist.
L'inserimento di
manager provenienti da settori diversi da quello dell'auto non sempre si è
rivelato essere una scelta fortunata: in tempi recenti
l'acquisizione di Ron Zarrella – proveniente da un produttore di
lenti a contatto – come capo della divisione Nord America della GM
e il breve regno di Bob Nardelli a capo della Chrysler (Nardelli
veniva da una catena di negozi fai-da-te) sono stati – al contrario
- due esempi di storie di insuccesso.
Fanno eccezione,
per l'appunto, i capi supremi delle “tre grandi”, nonostante le
nette differenze che contraddistinguono i loro stili di management.
L'ingegnere di
Oakland (California) Alan Mulally proviene dal produttore di
aeroplani Boeing, ha preso posto come presidente e CEO di Ford Motor
Company nel settembre 2006, succedendo al bis-nipote del fondatore
(Henry Ford), William Clay Ford junior.
Lo stile di Mulally, secondo
l'autorevole settimanale, è quello del “cheerleader esigente”:
grandi sorrisi ed abbracci, grande rigore e responsabilizzazione,
spinge a dare il meglio di sé stessi per ottenere approvazione.
Proviene da una
società di telecomunicazioni il boss di GM, Dan Akerson (anche lui
californiano di nascita), ma ha un passato da ex-ufficiale di marina,
e si vede.
Il “management degli ordini urlati” è lo stile che
contraddistingue il ruvido manager, dai modi gelidi.
Attenzione per i dettagli, disciplina, ordine, sono i punti di forza di questo modello: si racconta che abbia interrotto una riunione per raccogliere un pezzo di stoffa da terra.
Non aspettarti
alcun abbraccio è il consiglio che The Economist si sente di poter dare.
A capo della più
piccola delle tre grandi troviamo l'italo-canadese Sergio Marchionne, il quale precedentemente aveva lavorato per il Gruppo SGS (servizi di ispezione, verifica e certificazione). Esponente del “management a spasso”, sempre in viaggio, vestito
informalmente, appare improvvisamente in fabbriche ed uffici Chrysler
o Fiat in giro per il mondo, per sistemare problemi al volo.
Una
sorta di micromanager, nel bene e nel male. O un manager fai-da-te,
aggiungiamo noi, una specie di Sergio the Builder, caratteristica
(forse) necessaria per gestire un'azienda come la Fiat.
Chi dei tre è
destinato ad entrare nell'Olimpo dei grandi dell'auto? Secondo il
giornale inglese non ci sono dubbi, è Mulally, l'uomo che ha
permesso a Ford di ritornare in salute senza ricorrere né alla
bancarotta, né a pesanti aiuti da parte del governo.
La battaglia per la Casa Bianca si combatte anche sul settore auto: secondo
un articolo riportato da IndustryWeek.com,
il CEO
del Gruppo Chrysler (e di Fiat Group Automobiles) Sergio
Marchionne
si è unito ad un coro di critiche nei confronti delle dichiarazioni
del candidato presidente USA Mitt Romney, secondo il quale Jeep
starebbe spostando posti di lavoro dagli Stati Uniti alla Cina, come
risultato delle politiche attuate da Barack Obama, attuale
presidente.
Il
partito repubblicano ha creato un video (lo puoi vedere sul nostro canale YouTube), nel quale una voce fuoricampo informa che Barack Obama ha venduto
“Chrysler agli italiani, che produrranno Jeep in Cina”e lo stesso
Mitt Romney ha spiegato ai propri supporters in Ohio (dove si trova
lo stabilimento Jeep di Toledo e dove un posto di lavoro su otto è
legato all'industria dell'auto) che Jeep sposterà l'intera
produzione nel mercato orientale.
Mitt
Romney può fare meglio, è il messaggio finale del video che inizia
con la domanda “Who will do more for the auto industry” (“Chi
farà di più per l'industria dell'auto”), nel quale si ricorda
anche che lo storico dirigente della Chrysler Lee Iacocca
(protagonista del bailout del 1979) e il giornale Detroit News appoggiano la candidatura
Romney per la Casa Bianca. Il video non ha passato bene il Pinocchio test del Washington Post.
Marchionne
ha risposto che il fatto che Jeep si trovi nella posizione di
produrre in Cina è una segnale di forza del marchio ed è dovuto
alla necessità di produrre localmente nei mercati emergenti (è
quello cinese è il primo mercato al mondo per vendita auto), e che
la produzione Jeep negli Stati Uniti è triplicata da quando è sotto
il controllo Fiat, aggiungendo 11.200 posti di lavoro.
Il
presidente Obama è andato meno per il sottile, dicendo che Romney
“[Mitt Romney] aveva torto allora... ed è disonesto ora”, ricordando lo slogan
sbandierato all'epoca da Romney: “let Detroit go bankrupt”
(“lasciamo che [l'industria automobilistica di] Detroit vada in
fallimento).
GM
e Chrysler – aziende protagoniste del bailout promosso da Obama –
hanno contabilizzato profitti record nei primi tre trimestri del 2012
(Chrysler ha migliorato dell'80% i propri guadagni, passando da 212
milioni di dollari a $381m).
Non
se ne parla nemmeno, secondo il numero uno di Opel – nonché
vicepresidente della capogruppo General Motors – Stephen Girsky che
ha risposto in maniera secca alla serie di voci che vorrebbero la
Fiat di Sergio Marchionne interessata all'azienda tedesca: “Opel
non è in vendita, e General Motors mantiene il suo pieno supporto ad
Opel, parte pienamente integrata della struttura globale di GM e di
vitale importanza per il futuro successo di GM in Europa”.
Headquarters Opel
Girky
ha poi aggiunto che l'avanzamento delle operazioni legate
all'alleanza GM-PSA è in linea con i programmi, smentendo le voci
che davano per “in difficoltà” la collaborazione nata nel marzo
scorso, che ha previsto l'acquisto del 7% di Peugeot da parte degli
americani.
Una cosa è certa,
per come sono mese le cose, il mercato europeo è fonte di grattacapi
e perdite economiche per tutti gli attori di questa presunta
operazione: nel primo semestre 2012, a livello operativo Opel ha
contabilizzato un passivo di quasi 500 milioni di euro, mentre Fiat
ne ha persi 354 e i francesi di PSA sono in rosso per ben 662 milioni
(pare che Peugeot si appresti a chiudere uno stabilimento in Francia,
per ridurre le perdite).
In questo
scenario, l'ulteriore consolidamento di marchi e aziende del mondo
dell'auto – previsto da Marchionne in tempi non sospetti –
sembrerebbe inevitabile, per ridurre la sovrapproduzione che
caratterizza il vecchio continente in primo luogo (anche Volkswagen
ha dovuto rivedere i propri obiettivi, abbassandoli di 140.000
unità).
Nuova Punto: prevista per il 2014 (a meno di sorprese)
Il piano di
Marchionne – simile a quello presentato nel 2009 quando sembrava
che GM si sarebbe liberata di Opel, e simile al modus operandi
utilizzato per l'inizio dell'acquisizione Chrysler – sarebbe quello
di acquisire Opel a prezzo di saldi (praticamente a costo zero), nel
momento in cui GM volesse smettere di investirci del denaro. Tutte
speculazioni secondo Morgan Stanley, che però prevede che Opel perda
oltre 750 milioni di euro all'anno, da qui al 2012.
Da parte di Fiat
il vantaggio sarebbe quello di poter contare su volumi maggiori e,
grazie alle sinergie utilizzabili fra i marchi (come successo ai
tempi dell'alleanza Fiat-GM terminata qualche anno fa), potrebbe
rimettere i moto i propri investimenti, a partire dallo sblocco di
nuova Fiat Punto (attualmente congelata fino al 2014).
A questo punto si
proporrebbe un nuovo quesito: è in grado, il gruppo italo-americano,
di gestire un marchio che attualmente rappresenta uno dei maggiori
concorrenti di Fiat?
General
Motors Co. ha dichiarato di aver venduto 9,03 milioni di veicoli
nel 2011, con un tasso di crescita pari al 7,6 percento, grazie anche
alla straordinaria crescita del marchio Chevrolet (che
all'inizio degli anni 2000 ha inglobato la coreana Daewoo e che ha
venduto 4,76 milioni di vetture e veicoli commerciali lo scorso
anno), fresco di centenario.
Allo
stesso tempo il Volkswagen AG (che ha in passato più volte
dichiarato di voler diventare il primo produttore di veicoli al
mondo, antro il 2018) ha detto di aver totalizzato 8,16 milioni di
vendite, rendendo così il colosso tedesco il gruppo numero 2 al
mondo.
Ma
non è così, secondo il Gruppo Volkswagen. O meglio: se
entrambi i gruppi automotive avessero usato lo stesso sistema
di calcolo, Volkswagen potrebbe trovarsi in cima alla classifica,
secondo diversi osservatori e lo stesso Gruppo VW (ovviamente).
Le
obiezioni riguardano innanzitutto il fatto che le le statistiche
Volkswagen non contemplano le vendite di veicoli industriali da parte
delle controllate MAN e Scania (che potrebbero aggiungere circa
200.000 camion ed affini). Poi GM ha sommato alle vendite anche i
risultati di Wuling Motors Co. (1,29 milioni di microvan) ed altre
joint van cinesi, dove gli americani detengono una quota inferiore al
50 percento (limite imposto dalla legislazione locale).
Insomma,
la discussione potrebbe andare avanti per un po'.
Pensate
che sia un po' sterile? Beh, è pur sempre una questione d'orgoglio!